
Ex manicomio di Volterra: immagini e follia raccontata nei versi di Alda Merini
Ero matta in mezzo ai matti. I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti. Sono nate lì le mie più belle amicizie. I matti son simpatici, non come i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo. I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita!
Alda Merini
Avevo già fatto i conti con il silenzio che avvolgeva i padiglioni abbandonati dell’ex manicomio di Roma, (ex manicomio di Santa Maria della Pietà) silenzio che avevo definito assordante perché pieno, ingombrante, che si era insinuato prepotentemente, attraverso i pori della pelle, dentro di me.
A Volterra, girando per i giardini dell’ex struttura manicomiale, ho percepito la stessa sensazione.
Questi luoghi ci proiettano inspiegabilmente indietro nel tempo, facendoci rivivere l’atmosfera di alienazione umana, di disagio, di terrore che un tempo aleggiava nei giardini, sulle panchine, dietro le sbarre delle finestre ora arrugginite, nei corridoi attualmente devastati dall’incuria e dal passare inesorabile del tempo.

Alda Merini: l’orrore che si trasforma in poesia
Come scriveva Alda Merini, il manicomio è uno “spazio quasi atemporale dove si perde contatto col mondo e con se stessi” e angoli fuori dal tempo non ne poteva rimanere indifferente.
Questa volta ho deciso così di accompagnare gli scatti e le immagini dell’ex manicomio di Volterra, con le parole e le poesie di Alda Merini, per tanti anni rinchiusa in uno di questi luoghi così aberranti. (Poesie della raccolta ‘La Terra Santa’ )
La poetessa è riuscita a trasformare le difficoltà e l’orrore di una situazione estrema, quella dell’internamento manicomiale, che supera i normali ed accettabili limiti di tolleranza, in poesia e bellezza. Ha dato voce così a tanti uomini e donne che come lei hanno sofferto, sono state umiliati, perseguitati, perdendo identità e dignità, senza mai essere curati veramente.

Nell’Altra verità scriveva:
Al principio del ’65 quando ancora le leggi erano molto restrittive, ai malati era consentito così poco che nemmeno gli si dava la libertà nel lavarsi. È chiaro che il malato di mente non ha nessuna voglia di rendersi bello proprio perché, essendo stato strappato via alla società, non ha più voglia di avere contatti con l’esterno. Allora si ricorreva ad un mezzo coercitivo. Venivamo tutti allineati davanti a un lavello comune, denudati e lavati da pesanti infermiere che ci facevano poi asciugare in un lenzuolo eguale per capienza a un sudario, e per giunta lercio e puzzolente. Alle più vecchie facevano tremare le flaccide carni e così, nude come erano, facevano veramente ribrezzo. La prima volta che dovetti sottostare a questa rigida disciplina svenni, e per lo schifo, e perché ero così indebolita dalla degenza che non mi reggevo più in piedi. Ci allineavano tutte davanti a un lavello comune con i piedi nudi per terra fissi nelle pozzanghere d’acqua. Poi ci strappavano di dosso i pochi indumenti (il camicione dell’ospedale di lino grezzo eguale per tutti, che aveva dei cordoncini ai lati e che lasciva filtrare aria da tutte le parti). Poi le infermiere passavano ad insaponarci anche nelle parti più intime, e ci asciugavano in un comune lenzuolo lercio. Le più vecchie cadevano a terra per il modo maldestro con cui venivano trattate. Alcune scivolavano, altre battevano pesantemente la testa. Io, ogni mattina, davanti a quel lavello e all’odore terribile del luogo, svenivo e venivo ripresa con male parole e buttata sotto l’acqua diaccia.
Cosa vi fa venire in mente?
La follia: poesie e immagini
Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuova
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio.


Ore perdute invano
nei giardini del manicomio,
su e giù per quelle barriere
inferocite dai fiori,
persi tutti in un sogno
di realtà che fuggiva
buttata dietro le nostre spalle
da non so quale chimera.
E dopo un incontro
qualche malato sorride
alle false feste.
Tempo perduto in vorticosi pensieri,
assiepati dietro le sbarre
come rondini nude.
Allora abbiamo ascoltato sermoni,
abbiamo moltiplicato i pesci,
laggiù vicino al Giordano,
ma il Cristo non c’era:
dal mondo ci aveva divelti
come erbaccia obbrobriosa.


Viene il mattino azzurro
nel nostro padiglione:
sulle panche di sole
e di crudissimo legno
siedono gli ammalati,
non hanno nulla da dire,
odorano anch’essi di legno,
non hanno ossa né vita,
stan lì con le mani
inchiodate nel grembo
a guardare fissi la terra.



I versi sono polvere chiusa
di un mio tormento d’amore,
ma fuori l’aria è corretta,
mutevole e dolce ed il sole,
ti parla di care promesse,
così quando scrivo
chino il capo nella polvere
e anelo il vento, il sole,
e la mia pelle di donna
contro la pelle di un uomo.


Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d’orizzonti.
Il dolore è senza domani
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti
perché l’immobilità mi fa terrore?






Ancora un mattino senza colore
un mattino inesausto pieno
come una mela cotogna,
come il melograno di Dio,
un mattino che odori di felci
e di galoppate nei boschi,
ma non ci saranno né felci
né cavalli prorompenti in luce,
questo dolce mattino
porterà in fronte il sigillo
delle mie decadenze…

La pelle nuda fremente,
che di notte raccoglie i sogni,
la tua pelle nuda e fremente,
che vive senza emozioni
paga soltanto del mondo,
che la circonda indifeso,
la tua pelle non è profonda,
resta soltanto una resa:
una resa a un corpo malato
che nella notte sprofonda,
un grido tuo disperato,
a quello che ti circonda.
La tua pelle che fa silenzio,
e lievita piano l’ora,
la tua pelle di dolce assenzio
forse può darti l’aurora,
l’aurora tetra e gentile
di un primo canto di aprile.
Se volete saperne di più sull’ex manicomio di Volterra, vi consiglio di andare sul sito (https://manicomiodivolterra.it/ )totalmente dedicato alla sua storia.
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